Parchi e giardini della Tuscia
La fioritura dell’arte del giardino e del parco nelle sontuose ville della Tuscia tra i sec. XVI – XVII, nasce con l’ascesa al potere delle importanti famiglie del Rinascimento. I magnifici giardini delle ville dell’Alto Lazio, rappresentano il risultato della combinazione dell’idea concepita ed espressa da geniali architetti insieme ad importanti eruditi che compongono i complessi programmi artistici dall’alto significato allegorico e simbolico ad esaltare le doti dei facoltosi mecenati. Il paesaggio assume un ruolo predominante e viene considerato un’allegoria della natura. L’ispirazione e il recupero dei modelli classici dell’antichità profusi alla capacità di rinnovamento e alla versatilità dei progettisti, creano suggestivi paesaggi che ancora oggi meravigliano lo spettatore. Il giardino all’italiana di queste ville, si caratterizza per la regolarità del disegno geometrico e per il magistrale studio della distribuzione orizzontale e verticale dello spazio prospettico visivo. Il giardino si dispiega in sequenze sempre più ampie, includendo brani di bosco, a volte anche di campagna, legati a soluzioni di continuità per mezzo di rampe, scalinate e terrazzamenti per colmare i pendii del terreno. L’arredo delle specie vegetali è concepito secondo precisi disegni architettonici da scomparti delle aiuole e dalla disposizione di sculture, fontane, ninfei, grotte artificiali, pergole, spalliere e boschetti che vengono creati in funzione degli effetti visivi. L’acqua assume il ruolo di protagonista, plasmata come un materiale vivo, crea zampilli, spruzzi, vortici, cascate e getti che deliziano gli spettatori. Sofisticati meccanismi idraulici azionati a sorpresa, creano giochi d’acqua e improvvisi getti che innaffiavano gli ospiti nelle calde giornate estive. Infine labirinti di bosso, platani, abeti, querce, castagni, allori, lecci, gelsomini, piante rare, e tanti alberi da frutto costituivano il variegato complesso sistema arboreo. Pietra, acqua, luce e vegetazione sono gli elementi materiali che ancora oggi deliziano le scenografiche visioni dei parchi e giardini della Tuscia.

Il Parco di Villa Savorelli a Sutri
La Villa e il giardino Savorelli fanno parte del “Parco dell’Antichissima città di Sutri”. Questo complesso, situato sul colle Savorelli si estende per una superficie di circa quattro ettari e al suo interno sono comprese alcune delle emergenze storico-archeologiche e ambientali di grande importanza: l’Anfiteatro, la Necropoli rupestre, la chiesa di S. Maria del Parto e la Villa Savorelli con la chiesa di S. Maria del Monte. Lo sperone tufaceo del Parco è caratterizzato da grotte naturali e ambienti scavati nell’antichità dall’uomo e utilizzati come luoghi di culto e sepoltura. Tali emergenze sono parte integrante della folta vegetazione, della luce e dei colori che cambiano col mutare delle stagioni. Un viale tra secolari lecci conduce alla Villa costruita nei primi anni del ‘700 per volere della famiglia dei Marchesi Muti - Papazzurri. Da alcuni documenti d’archivio risulta l’esistenza della villa nel 1730. Passata alla famiglia dei Conti Savorelli, nei primi dell’’800 l’immobile fu proprietà della casata degli Staderini. Oggi il complesso appartiene al Comune di Sutri. Il Bargellini nei primi del ‘900 in visita alla Villa la descrive con questi versi: “Noi salimmo per una bella strada, folta di ombre, sul ripiano del monte, su cui spazia grande e signorile la Villa, tutta circondata dal verde nerastro dei lecci e delle querce secolari”. La facciata della villa si caratterizza da un motivo bugnato agli angoli dell’edificio e intorno al portale. La parte terminale del prospetto della villa presenta un cornicione aggettante e al centro un arco a tutto sesto. Magnifico è il giardino all’italiana che occupa la parte sud del colle ed è organizzato con siepi di bosso che formano dei disegni geometrici. Rose e siepi di ortensie decorano con i loro colori i vari angoli del parco. Una fontana a parete in peperino con vasca circolare, di recente restaurata, costituisce un angolo ameno e di riposo. Tutto il giardino di villa Savorelli fu creato secondo i tipici canoni del modulo all’italiana. Il parco che occupa la zona ad est del colle è chiamato “Bosco Sacro” ed è immerso nella vegetazione di secolari lecci che arrivano sino alla balconata aperta sulla suggestiva veduta dell’Anfiteatro. L’affascinate chiesa di S. Maria del Monte fu edificata nello stesso periodo della villa e la sua facciata coperta dalla folta edera, presenta influenze architettoniche borrominiane.

L'incanto naturale dell'Isola Bisentina
L’isola Bisentina è tra le bellezze naturali più significative della Tuscia. I colori, la rigogliosa vegetazione e il silenzio assoluto fanno dell’isola un’oasi in mezzo al lago. L’origine della Bisentina risale a circa 120.000 anni, quando una grande esplosione vulcanica dei Monti Volsini produsse tra colate laviche la conformazione dell’isola. Abitata sin dalla preistoria fu poi popolata dagli etruschi. Nel tormentato periodo del Medioevo la Bisentina fu utilizzata come carcere ecclesiastico detto “Malta dei Papi”. Le opere architettoniche oggi visibili sull’isola risalgono all’epoca di Ranuccio III Farnese che affidò ad Antonio da Sangallo il Giovane la prima costruzione della chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo, successivamente modificata nel ‘500 dal Vignola per volere di Papa Paolo III. Altre opere edificate sotto il periodo di Ranuccio sono il tempietto ottagonale di S. Caterina o la Cappella del Crocifisso. Nel 1462 Papa Pio II in visita sull’isola descrisse con questi versi il luogo:”…per un terzo costruita da un colle roccioso, anch’esso, tuttavia coltivato a ulivi e mandorli, e non mancano i vigneti, sulla vetta cresce il leccio. Una parte dell’isola è diligentemente coltivata a orto, con aiuole alte e spianate su cui crescono cavoli e legumi; e non mancano prati, parte dei quali sono lasciati ai conigli selvatici…”. Al termine di tanti passaggi di proprietà, la Bisentina nel 1912 fu acquistata dalla principessa Beatrice Spada Potenziani che curò con passione e spiccato gusto estetico la sistemazione dei giardini e del parterre. Da pochi anni l’isola è gestita dal principe Del Drago che ha iniziato un avvio programmatico di restauri tuttora in corso. La Bisentina è un luogo magico e incontaminato dove tutto convive nel rispetto e nell’armonia con l’ambiente naturale. L’atmosfera serena che si respira nel chiostro ricostruito dopo decenni di abbandono, è arredato con gusto ed eleganza dove l’uva fragola e le piante aromatiche ornano la sua pergola. Il parterre ornato da fioriture deliziose è costituito da disegni geometrici e si trova a fianco della chiesa. Magnifici gli ulivi centenari e la grande quantità di ortensie tra palme, magnolie, rose e cedri dell’Himalaya risalgono ai primi del ‘900 quando il giardino fu creato dalla principessa Spada. Grande interesse suscita infine la vegetazione spontanea rappresentata da quella ripariale come pioppi, salici e ontani, a quella delle pareti rocciose ricche di piante rupicole e felci. La parte più elevata dell’isola chiamata monte Tabor presenta le piante tipiche mediterranee come lecci, allori e corbezzoli. Il periodo primaverile si distingue dalle altre stagioni per le bellissime fioriture di giaggioli e ginestre che si rispecchiano nelle limpide acque azzurre del lago creando un paesaggio che suscita rare suggestioni.

Le geometrie dei giardini nel Castello di Vignanello
L’antica rocca di Vignanello fu edificata nella parte più vulnerabile del pianoro tufaceo su cui si sviluppò il borgo. Il castello venne così a costituire sin dal Medioevo un luogo difensivo tra le pendici dei monti Cimini e la valle del Tevere. Nel 1531 fu nominata prima feudataria del castello Beatrice Farnese, figlia di Pier Bertoldo del ramo di Latera. Il fratello di Beatrice fu Galeazzo Farnese padre di Giulia che andrà in sposa a Vicino Orsini colui che creerà il “Sacro Bosco” di Bomarzo. Dall’unione tra Giulia e Vicino nascerà Ottavia Orsini che sposando nel 1574 Marc’Antonio Marescotti, diverrà alla tragica morte del marito nel 1608, nuova feudataria di Vignanello. Ad Ottavia si deve la sistemazione del castello così come appare oggi, ed ella creò nel 1611 il magnifico giardino che adorna la parte posteriore del maniero. Una targa marmorea collocata sopra il portale posteriore della rocca reca l’iscrizione: OCTAVIA VRSINA PRO/ SFORTIA VICINO ET/ GALEATIO MARESCOTIS/ FILIBVS COMITIBVS IVLIA / NELLI ET PARRANI 16XI, confermando l’anno di realizzazione dei lavori nel 1611 ad opera di Ottavia. Dal 1704 il castello prese il nome Ruspoli ed ancora oggi appartiene ai discendenti di questa famiglia. Il giardino di Vignanello è considerato uno dei più bei parterres esistenti in Italia. La singolarità di questo giardino all’italiana è la sua relazione di continuità paesaggistica che ha con il castello il borgo, il Barco ed infine con le campagne circostanti. Il giardino si sviluppa sulla dorsale di un promontorio ed è costituito da quattro viali e suddiviso in dodici parterres allineati, squadrati e compatti. Le siepi più alte sono di lauroceraso, viburno, mirto e alloro, le più basse sono interamente di bosso e compongono vari disegni geometrici, mentre le tre aiuole poste sotto al castello, formano le iniziali di Ottavia Orsini e dei figli Sforza e Galeazzo. Al centro del giardino si adagia una vasca recintata da quattro arcate di balaustra. Le piante in uso all’epoca perché di gran moda erano il “lauro regi” o lauro di Trebisonda e il lauroceraso nativo dell’Asia Minore e riscoperto in Europa nel ‘500. Originariamente salvia e rosmarino componevano le linee geometriche delle aiuole. Le spalliere a parete, definiscono gli scomparti del giardino e le visioni prospettiche dei viali. Ancora oggi il giardino di Vignanello suscita grande interesse per l’animato colore delle siepi sempreverdi insieme al colore giallo oro dei limoni, dei cedri e dei melangoli, il gioco con i riflessi delle acque nelle fontane e delle fioriture stagionali. Dall’inventario del castello redatto nel 1656, emergono dati importanti per capire l’articolazione del complesso costituito da: “Giardino di verzura con Peschiera al centro, Fontana, Uccelliera, Gioco della Pallacorda, Giardinetto segreto, Barco grande con animali e peschiera ed infine il Barchetto sotto il torrione sud della rocca con peschiera e fontana”. Tra le spese che periodicamente si dovevano affrontare per potare spalliere e siepi, i documenti riferiscono di “rotatura delle forbici e l’uso di scale doppie”. Nel periodo invernale, le stanze sotto l’Uccelliera oggi scomparsa, venivano riposti gli agrumi per proteggerli dal freddo. Era antica usanza riscaldare con bracieri accesi gli ambienti adibiti a limonaie nei periodi più rigidi. Significativo è l’inventario dei beni del Conte Sforza Marescotti datati 1681-1682 in cui si contavano più di 60 vasi di varie dimensioni piantati ad agrumi. Nel novembre del 1725 il castello ospitò Papa Benedetto XIII e dal Fondo Ruspoli i documenti ci ricordano della passione del pontefice nel passeggiare tra i viali del giardino, mentre la Guardia degli Svizzeri era alloggiata nel grande ambiente della “Pallacorda” oggi non più esistente. Il giardino segreto si trova ad un livello più basso ed è opportunamente esposto a mezzogiorno per coltivare le piante più delicate. Da questo luogo si accede a diverse grotte utilizzate nei secoli come magazzini e “Mola per l’olio”. Dall’accurata documentazione dei condotti idrici, si desume l’uso indispensabile e primario dell’acqua ad ogni angolo del castello e del vicino borgo. Una fontana gradonata che gettava acqua da un vaso all’altro detta “catena d’acqua”, si trovava sopra la peschiera del Barchetto che era a sua volta collegata con il “Peschierone del Barco”. Quest’ultimo era attraversato da un lungo viale che terminava con un ponte verso il castagneto di Monte Sforza. I viali venivano accuratamente bordati da siepi e spalliere, i documenti riportano periodiche spese di “rimozione della terra” e “raschiature e puliture”, per assicurare e migliorare le piacevoli passeggiate. Tutto il paesaggio intorno ai giardini di Vignanello ha subìto nei secoli profonde trasformazioni. L’incremento edilizio e la costruzione nei primi del ‘900 della linea ferroviaria che taglia la continuità tra Barchetto e Barco, hanno mutato la visione spaziale concepita dai costruttori del ‘600. Nonostante i grandi cambiamenti di stile nei secoli, il giardino del castello di Vignanello ha mantenuto intatta quell’eleganza e bellezza realizzate dalla sua castellana Ottavia che ha voluto così lasciare indelebile il suo amore per questi luoghi.

Le meraviglie del Sacro Bosco di Bomarzo
Il Sacro Bosco di Bomarzo è un mondo fantastico dove la vegetazione rigogliosa e selvaggia della natura si incontra con la fantasia umana per realizzare un complesso artistico – culturale unico al mondo. Il committente del parco fu il principe Pierfrancesco , detto Vicino Orsini, uomo d’arme ma anche instancabile lettore degli autori classici e parente dei Farnese. Vicino Orsini ebbe importanti amici quali i cardinali Gambara e Madruzzo e fu in rapporto con Annibal Caro e con Francesco Sansovino. Vicino fu l’ideatore dei temi cui sono ispirate le raffigurazioni delle numerose statue che compongono il Sacro Bosco, mentre resta alquanto difficile attribuire la realizzazione delle opere di cui sono stati fatti i nomi di: Raffaellino da Montelupo, il Vignola, Giacomo Del Duca sino all’Ammannati e Pirro Ligorio. Il parco fu realizzato in un luogo ideale, infatti l’intero complesso si sviluppa tra balze irregolari e massi affioranti che degradano dal pianoro al fondovalle mentre l’imponente palazzo Orsini domina d’alto tutto il suggestivo scenario. La vegetazione originale era costituita da macchia e boschi di caducifoglie. Le roverelle, i cerri, gli ornielli, aceri campestri, castagni, lecci, biancospini, pungitopi, edera cornioli, ciclamini, anemoni e ginestre rappresentavano l’apparato vegetale al tempo di quando fu creato il parco. Le nuove vegetazioni come abeti, cipressi e tuja, introdotte negli ultimi decenni, non hanno particolari relazioni con la fisionomia originale. I lavori del parco furono intrapresi intorno alla metà del sec. XVI e nel 1552 si ebbe la conclusione della prima fase, mentre l’intero complesso fu ultimato verso il 1583. La morte di Vicino vide passare il feudo di Bomarzo al figlio Corradino e nel ‘600 ai Lante della Rovere. Di questa seconda fase è documentata la presenza nei giardini del palazzo di fiori, piante di viti, ulivi, cedri e altri alberi da frutto. Oggi l’intero complesso appartiene ad una società privata. L’Orsini immaginò il parco come un luogo per godersi la frescura delle acque e degli alberi e la bellezza espressa dalla natura e dalla creatività umana. Su di un pilastro si legge scolpito: ”Sol per Sfogar il Core” una frase che ben sintetizza ciò che Vicino volle esprime con il Sacro Bosco. La sistemazione dei terreni per inserirvi apparentemente in ordine sparso, le sculture, fu molto oneroso infatti in una lettera del 1579 Vicino scriveva: “…et benedico quelli denari che vi ho spesi e spendo tuttavia”. Nel 1574, terminate le sculture, l’Orsini decise di colorirle e nel 1575 scriveva in una lettera: “…ho già fatto dare il colore a parecchie statue del boschetto…a mio giudizio fanno un bel vedere”. Lo sforzo economico del committente trasformò come per un incanto le pietre vulcaniche che affioravano dal terreno in stupende e terrificanti creature mostruose. Il Sacro Bosco non ricalca schemi precisi o assi prospettici come per la maggior parte dei giardini rinascimentali, ma si sovrappone all’ambiente naturale esaltandone le caratteristiche con la successione dei piani disposti a intervalli diversi sui vari livelli del pendio. Per alcuni storici il Bosco Sacro corrisponde al “lucus” latino e reca l’idea del mistero sacrale. Nell’antichità i boschi dedicati ai culti divini erano luoghi che vi si celebravano riti iniziatici che dovevano rivelare la natura dei suoi doni. La cultura dell’Orsini era legata a tali miti. L’avvicendarsi dei cicli stagionali o il fluire delle acque delle sorgenti richiamano il principio di circolarità tra morte e rinascita che per gli umanisti dell’epoca, unificava le religioni passate con l’attuale rivelazione cristiana. Non meraviglia dunque che nella Tuscia, ricca di antiche tradizioni religiose legate alla natura, richiamassero nella memoria di Vicino le presenze nel suo parco di divinità scolpite che celebrassero il passato. Secondo altri studiosi il parco di Bomarzo prevede due itinerari o percorsi simbolici: uno rappresentante la natura demoniaca vinta dall’Orsini, infatti tale percorso sale verso il monte e sembra alludere alla salita della vita come crescita spirituale dalla natura bestiale. L’altro percorso è in discesa e procede verso il basso, dove dominano il peccato, l’inferno e l’orrido costellato dai mostri più furiosi. L’architettura del tempietto ottagonale creato per onorare la defunta moglie del principe, conclude il cammino degli itinerari del Sacro Bosco e non a caso si tratta di una costruzione coperta a cupola, simbolo del cielo. Altre interpretazioni vedono nel parco un luogo ideale dove l’Orsini volle esprimere le proprie esperienze. Il principe Vicino partecipò alla guerra di Fiandre ed ebbe modo di assistere a tornei e feste in quelle terre. Spettacoli con finzioni e fantasiose scenografie con elefanti che sostenevano delle torri o carri mascherati, suscitarono immagini memorabili nel principe che volle a Bomarzo ricreare ciò a cui assistette. Altre interessanti osservazioni rivelano come le sculture del Sacro Bosco, possono trovare spunti iconologici, in figurazioni di epoca e cultura classica come nelle opere dell’Eneide o nell’Odissea o nei versi della Gerusalemme Liberata del Tasso. Non manca la presenza di precisi riferimenti al mondo etrusco e orientale. Draghi, elefanti, arpie o sfingi, satiri e mostri marini, giganti, belve, cerberi e altre figure simboliche tra fontane, vasi e stemmi costituiscono quell’immaginario e variegato mondo fantastico che Vicino volle realizzare. Oriente, tornei o feste, demoniaco o magia, tutto è ammissibile e storicamente giustificato, ma soprattutto è valida una forte tradizione antica. Essa giunge ai signori della Tuscia nel Rinascimento, tramite il prestigio dei Farnese che contribuirono alla diffusione della perfetta conoscenza dei miti classici e dei poemi epici degli scrittori greci e latini le cui opere ebbero in quell’epoca grande circolazione.


La magnificenza dei Giardini di Palazzo Farnese di Caprarola
Il palazzo Farnese di Caprarola rappresenta uno dei più begli esempi di costruzione cinquecentesca italiana. Esso risponde con una soluzione architettonica particolarissima a una peculiare situazione sociale, in quanto è stato costruito per raffigurare visivamente il potere socio – politico – religioso della famiglia Farnese, oltre che come residenza aristocratica. I lavori della prima fase di costruzione del palazzo furono commissionati dal cardinale Alessandro Farnese “senior” futuro Papa Paolo III, all’architetto Antonio da Sangallo il Giovane tra il 1530-1534. In quest’epoca era prevista la costruzione di una fortezza a pianta pentagonale. La seconda fase segna la ripresa dei lavori nel 1559 affidati al Vignola da parte del cardinale Alessandro Farnese “junior” nipote di Paolo III. In questo secondo momento venne convertita l’idea della fortezza in quella di una elegante residenza umanistica. I lavori del grandioso complesso durarono decenni e videro la partecipazione di illustri artisti e architetti. I vasti cicli pittorici eseguiti dai fratelli Taddeo e Federico Zuccari, il Bertoja, il Tempesta, Giovanni de' Vecchi, Raffaellino da Reggio, lo Sprangher e Paolo Brill corrispondono in maniera perfetta al programma ideologico dell’edificio e alla sua configurazione architettonica. Ispiratori del repertorio iconografico furono lo stesso cardinale Farnese assieme agli stretti collaboratori come: l’erudito Annibal Caro, Onofrio Panvinio e Fulvio Orsini. Architettura e pittura nel palazzo di Caprarola rispondono all’obiettivo di sintetizzare combinando in strati diversi: mitologia, storia sacra, storia famigliare, cultura, esoterismo e scienza. Il tutto converge, come in un sistema centralizzato, nella glorificazione della dinastia non intesa però solo come potenza terrena, ma in un disegno provvidenziale divino. I due splenditi giardini denominati d’inverno e d’estate, sono raggiungibili dai due relativi appartamenti al secondo piano del palazzo. Ideati secondo l’esposizione stagionale, i due giardini sono collocati: a ovest quello d’inverno ed nord quello d’estate. Questi presentano delle piante quadrate che misurano circa 70 mt. per lato. In origine quello d’inverno aveva sedici riquadri di aiuole, mentre quello d’estate ne aveva trentasei. I viali sono perpendicolari tra loro e sono ornati ai lati da lecci, cipressi, magnolie e allori. Le rettangolari aiuole, oggi sono costituite tutte da bosso. Nel 1578 Fabio Arditio segretario al seguito di Papa Gregorio XIII in visita al palazzo di Caprarola, scriveva nella sua relazione, riferendosi al giardino d’estate: “Per tutto sono arbori fruttiferi con un boschetto di lauri et spallieri d’ogni intorno, sempre verdi, che in vari modi lo compartino, con nicchie in capo e viali coperti di verdure, con sedili da riposarvisi” e nell’altro giardino che verrà completato tra il 1573 e 1583, oltre al bellissimo pergolato centrale, l’Arditio ricorda: “…ci sono molti arbori fruttiferi”. Nelle pareti di fondo vennero ricavati spazi per accogliere fontane dai giochi fantasiosi e grotte come quella detta dei “Tarteri” costituita da concrezioni di calcare e raffigurazioni di satiri. Lungo i viali, improvvisi getti d’acqua si aprivano bagnando gli ospiti nel periodo estivo. Alcuni studiosi hanno attribuito tali realizzazioni al celebre fontaniere Curzio Maccaroni. Nella parte di congiuntura dei due giardini, fu ricavato uno spazio per collocarvi la fontana detta del “Pastore”. Dalle finestre interne agli appartamenti si aprono visuali corrispondenti ai rettilinei viali che si concludono con le belle fontane, ad indicare che questi due giardini furono concepiti come componente essenziale del palazzo. Tra il 1583 e il 1584 il cardinale Farnese acquistò un vasto territorio sovrastante il palazzo a circa 400 mt. di distanza. Quest’area fu utilizzata per realizzare un grande giardino detto Barchetto, di stile architettonico tardo rinascimentale e Barocco, costituito da lunghi viali, scenografiche fontane e una villa chiamata del Piacere. La prima fase dei lavori fu diretta dall’architetto Giovanni Del Duca mentre la progettazione della villa del Piacere fu affidata all’architetto Giovanni Antonio Garzoni da Viggiù. La seconda fase dei lavori fu commissionata nel 1620 dal nuovo proprietario Odoardo Farnese a Girolamo Rainaldi coadiuvato da abili scultori come Pietro Bernini, padre del celebre Gian Lorenzo. L’accesso al Barchetto inizia dal giardino d’inverno passando per un pergolato di viti, oggi sostituite da rose. La salita procede verso il grande viale erboso tra castagneti e stupendi abeti bianchi. Nell’agosto del 1584 risulta che il cardinale Alessandro richiese personalmente al Generale di Camaldoli quattrocento abeti bianchi da piantare con ordine lungo i viali e ancora oggi visibili. Il grande viale venne concepito dai costruttori come un percorso d’introduzione al sorprendente complesso scenografico del Barchetto. Questo è costituito in alto dalla stupenda fontana dei due fiumi, simboli dei “Genius loci” che custodiscono al loro centro la fontana detta del Bicchiere di cui le sue acque alimentano scendendo la fontana della Catena dei Delfini e infine concludono la discesa nelle quiete acque della fontana del giglio, così chiamata perché azionando un potente getto l’acqua forma il giglio farnesiano. Il percorso seguito dall’acqua nell’attraversare le fontane, esprime metaforicamente la natura non più signora assoluta, ma assoggettata ed inneggiante al suo dominatore che è l’uomo, che le impone un ordine ed una simmetria. In alto domina la Villa del Piacere che si apre con il suo porticato e loggiato al magnifico giardino inferiore, magicamente “vegliato” da ventotto grandi statue di erme canefore poste a regolari intervalli lungo il perimetro. Queste singolari statue esprimono con i loro attributi, ninfe e satiri, alcuni suonanti flauti ed altre la zampogna. L’armonioso giardino inferiore in origine era molto più elaborato, le attuali alte siepi di bosso, costituivano i riquadri al cui interno un tempo vi erano disegni floreali basati sull’emblema del giglio. Significativa è la presenza di statue che rappresentano unicorni, esaltati per la loro virtù di purificare le acque. Il giardino superiore è situato a monte della Villa del Piacere. Quest’ultimo giardino è altamente spettacolare: l’ampio piazzale a prato, è delimitato da un lato dal bosco di castagni e dall’altro lato si affaccia sul panorama. Al centro del piazzale domina la mirabile fontana a tazza con un pavimento in mosaico di ciottoli bianchi e neri che formano i gigli farnesiani. Ai lati del viale, sono collocati giardini ad ampi gradoni con fiori e diciotto basse fontane con mascheroni. La veduta del viale è chiusa da una scenografica esedra che immette nel bosco. In questo punto domina il gruppo scultoreo della ninfa in groppa all’unicorno che simboleggia il mito di Europa rapita da Giove trasformatosi di toro. Nell’inventario del palazzo nel 1626, vengono elencati un gran numero di vasi in legno e terracotta, per contenere i “marangoli” ossia l’arancio amaro, i “maranzi” cioè l’arancio a polpa dolce e ancora vasi di gelsomini, piccole conifere, gigli, allori e molti fiori. Oggi gran parte di questo apparato vegetale è sparito ma ancora nei giardini del palazzo e villa, secolari castagni, cipressi, abeti, camelie, rododendri, azalee e rose ci trasmettono quell’incanto di cui i giardini Farnese di Caprarola hanno rappresentato
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La magia incantata dei Giardini di Villa Lante a Bagnaia
I giardini di Villa Lante sono stati definiti: “L’estremo limite della perfezione nella progettazione dei giardini di puro stile classico e che tentano di riunire cielo e terra con mezzi che superano la capacità della pittura e dell’architettura”. (Jelloicoe 1960). Nel 1514 il cardinale Raffaele Riario per rendere più piacevole il suo soggiorno a Viterbo, decise di creare un Barco di caccia, popolato di selvaggina. L’area prescelta era costituita da 25 ettari alle pendici del monte S. Angelo subito fuori all’abitato di Bagnaia. Nel 1549 il cardinale Nicolò Ridolfi fece costruire su disegni dell’architetto Tommaso Ghinucci, un acquedotto per rifornire il Barco e il sottostante paese. La trasformazione da riserva di caccia a villa sarà un’idea del cardinale Giovan Francesco De Gambara vescovo di Viterbo e discendente da una illustre famiglia bresciana e nipote della poetessa Veronica Gambara. Uomo di grande, cultura il cardinale Gian Francesco fu uno dei porporati più ricchi del Sacro Collegio e amico del cardinale Alessandro Farnese. I lavori di edificazione la confortevole villa e gli eleganti giardini iniziarono nel 1568. In questo stesso anno è documentata una visita alla villa di Bagnaia del celebre Vignola inviato dal cardinale Farnese , per consigliare l’amico Gambara su come seguire i lavori. Il 1578 è l’anno che segna il termine del complesso, infatti nella visita a Bagnaia di Papa Gregorio XIII, il cronista Fabio Arditio scriveva della villa: “Ne l’ultimo piano a piè del monte è un bellissimo e spatioso giardino, in un capo del quale è fabbricata una bella casotta alla rustica et nell’altro all’incrocio se ne fa un’altra”. Nel descrive il complesso, l’Arditio nomina solo la palazzina di destra perché a quella data era l’unica ultimata. L’intera costruzione era costata al Gambara dai 60 ai 70 mila scudi e questa enorme cifra per quei tempi fu oggetto di disapprovazione da parte del cardinale Borromeo in visita alla villa nel 1579. Nel 1581 Michel de Montaigne passò per Bagnaia e rimase stupefatto dalle fontane della villa che giudicò superiori a quelle delle ville Medici a Pratolino e d’Este a Tivoli: “…ha l’acqua di fontana viva, che non ha Tivoli e tanto abbondevole che non ha Pratolino”. Divenuto nuovo proprietario della villa il cardinale Alessandro Peretti Montalto si costruì l’altra palazzina e furono migliorati i giardini ed il Barco-parco. Dopo la morte del Montalto, il complesso passò di mano in mano a varie famiglie sino al 1656 quando Ippolito Lante della Rovere ottenne la villa in enfiteusi temporanea. La proprietà rimarrà ai Lante per tre secoli sino al 1953 quando venne acquistata dalla Società Lante e dal 1973 è dello Stato Italiano. L’interno complesso attorno alle due palazzine è costituito da due parti: il giardino all’italiana, frutto dell’inventiva artistica dei suoi progettisti ed il Barco-parco, completamente integrato con il giardino attraverso soluzioni di continuità. Per poter meglio interpretare gli elementi del complesso, è necessario rifarsi al programma ideato dal Gambara. Superato l’ingrasso al Barco, si incontra la bella fontana del Pegaso, il cavallo alato che percuote con lo zoccolo una roccia e fa sgorgare acqua. Questa fontana dal significato allegorico, indica Pegaso che attraverso lo scalpito del suo zoccolo fa scaturire dai monti Elicone e Parnaso, Ippocrane, fonte sacra alle Muse, rappresentate nei nove busti posti alle pareti. Questo luogo allude al regno della natura ispiratrice dell’arte. La successiva fontana è detta delle Ghiande e costituisce la chiave per spiegare tutti i simboli nel Barco. Le ghiande sono associate all’Età dell’Oro quando gli uomini vivevano in piena libertà, in pace e assenza di leggi. Mangiavano ciò che la natura produceva. Le altre fontane che si incontrano come quella delle Anatre, alludono tutte allo stato primigenio dell’umanità che è espresso in tutto il Barco. Questo luogo è percorso da lunghi viali che collegano alcune significative fontane. Lecci, rari platani orientali, camelie, aceri, querce, ornelli, sorbi e carpini costituiscono ancora oggi il corredo arbustivo del Barco. L’ultima fontana del parco è quella detta del Conservone e serve ad alimentare tutte le altre fontane della villa. Il Conservone è costituito da una grande peschiera con al centro una testa gigantesca di Giano quadriforme. Davanti a questa vi è la vasca con il busto scolpito di Giove che allude all’introduzione nel suo regno. Infatti l’Età dell’Oro fu interrotta dal divampare di risse e incomprensioni tra gli uomini, per cui gli dei, adirati, fecero scatenare il diluvio che segnò la fine del genere umano. Solo due sopravvissero: Deucalione e Pirra i nuovi progenitori dell’umanità. D’ora innanzi, l’uomo per vivere dovrà usare l’ingegno e le proprie forze. Un saggio uso della ragione e dell’arte per un rinnovato equilibrio tra uomo e natura creerà l’Età della Ragione o di Giove, che è rappresentata dalla sezione del giardino formale. Questi, è costruito secondo precise regole artistiche: perfetta simmetria geometrica delle forme rispetto all’asse longitudinale del giardino, successione prospettica dei quattro terrazzamenti lungo il pendio in cui si disloca l’intero giardino, le scale e balaustre di raccordo, i miti delle origini, i simboli espressi dalla natura e dall’arte ed infine l’acqua che diviene l’elemento principale della villa. La fontana del diluvio è posta al culmine dei giardini formali, qui l’acqua scaturisce con furia quasi devastatrice alludendo al diluvio. Scendendo lungo l’asse prospettico, l’acqua arriva alla fontana dei Delfini o del Corallo circondata da siepi di bosso e sedili in peperino. La successiva fontana alimentata dalla precedente, è quella detta Catena d’Acqua con l’emblema araldico del cardinale Gambara. In questa fontana l’acqua scende quasi gioiosa ad indicare che sta attraversando le opere del committente. Di qui il defluire passa alla fontana dei Giganti con le statue dei fiumi Tevere e Arno, quindi passa per la “Tavola del Cardinale” dove nel mezzo si trova un canale utilizzato per rinfrescare le vivande durante i banchetti. La fontana dei Lumini con i settanta zampilli che recano l’idea di candelieri venne ricordata dall’Arditio che scrisse: “…a ogni scalino è una fontanella con un bollor di acqua, che paiono tante candele d’argento sopra loro candelieri”. L’ultima fontana è chiamata dei Mori ed è situata nell’ultimo parterre su un terreno quadrato. Questa fontana è costituita da una vasca quadrata suddivisa da quattro parti con passerelle e al centro l'isola - fontana con i quattro Mori. Delle barche con archibugieri sono sistemate nella piscina e alludono ad una naumachia o battaglia navale. Il ripiano inferiore del giardino era in origine diviso in sedici riquadri minori: quattro al centro con il parterre e dodici (oggi ridotte ad otto), bordate da siepi di viburno e piante da frutto e fiori. Al tempo del Gambara, il patrimonio arboreo era ricco di: lauorocerasi e platani, mentre i ripiani superiori vi erano boschetti di corbezzoli, lecci e cespugli di ginepri e mortella. Grande importanza si dava alle piante da frutto costituite da: melograni, cotogni, ulivi, fichi, viti, prugne e nespoli. Spalliere di rose e querce chiudevano ai lati la stupenda scenografia di Villa Lante.
